“Indossate tutti la sciarpa prima di salire sul dromedario perché la sabbia alzata dal vento vi può far male al viso.”

Immagino già mille spilli che mi pungono la pelle ripetutamente, schiaffi di vento accompagnati da una miriade di minuscoli chicchi di sabbia che martoriano le mie guance.

Poi salgo sul dromedario.

Andiamo così lenti che l’unico modo per avere della sabbia addosso, sarebbe cadere di faccia a terra. Il movimento è più o meno quello che devi avere in sella ad un cavallo, un ritmato saliscendi ma, da ubriaco. Ondeggio come i gonfiabili fuori dagli autolavaggi del Texas. Provo a parlare con Fred (il nome dato sul momento al mio dromedario) ma è uno di poche parole, si limita a girare di scatto la testa verso la mia gamba per depositare due etti di saliva schiumosa sul pantalone nero. Ringrazio e vado avanti.

Merzouga si trova a Sud del Marocco non molto distante dal confine con l’Algeria. Da qui partono coloro che vogliono intraprendere un viaggio nel Sahara o, coloro che hanno appena finito di attraversarlo. Qui ci sono le dune più alte del Marocco, quelle di Erg Chebbi, arrivano sino ai 180 metri anche se, grazie al vento e alla natura mutevole del deserto, altezze e forme delle colline sabbiose sono sempre diverse.

La sabbia ha un colore quasi ambrato, non c’è vento e le impronte restano impresse su di essa dipingendo lunghe linee geometriche su questo panorama liscio e morbido.Ci sono degli alberi solitari che si issano verdi e coraggiosi. C’è uno strano silenzio, intervallato solo dal rumore di Fred che cureggia. Poverino, con me sulla schiena dev’essere un gran bello sforzo camminare sulle creste scivolose di questo deserto.

Per affrontare la duna più alta che ci appare come una parete gigantesca e insormontabile, scendiamo dai nostri amici a quattro zampe e una gobba, e ci togliamo le scarpe. Che sensazione sublime. I granelli sono talmente fini che sembrano perle di seta.

“Dai Daniè corri, saliamo fino in cima”.

“Arrivo!” grido mentre vedo gli altri allontanarsi. -Arrivo un cazzo- penso tra me e me. Ogni passo che faccio verso l’alto, sono due indietro. Praticamente sono un gambero difronte ad un pericolo. Affondo sino alle caviglie, metto un piede avanti all’altro e mi isso con energia.

Sarà passato all’incirca un quarto d’ora, mi fermo, voglio guardarmi indietro e riprendere fiato. Con mio grande stupore e disappunto noto che i dromedari hanno ancora la stessa dimensione. Avrò fatto sì e no venti metri.

“Dai cazzo Daniè muoviti! Da quassù è bellissimo!”

Uno dei ragazzi che ci guida torna giù correndo e mi aiuta nell’impresa. Faccio circa 150 metri pendenza 85% con un braccio teso in avanti e la mia mano stretta nella sua come una bimba trascinata per strada che non vuole andare dal dentista. Non mi lascia nemmeno il tempo di respirare o di capire se le gambe che si stanno muovendo sotto di me siano ancora attaccate al busto.

Conquisto la vetta.

Da qui il mondo è incredibile. Una distesa infinita di sabbia apparentemente immobile. Onde color bronzo che s’incastrano in un cielo azzurro ricco di piccole nuvolette bianche. Una piacevole sensazione di pace mi entra in petto. Beh insomma, o è la pace o è un’attacco cardiaco dovuto allo sforzo. Mi siedo sulla lunga e stretta cresta facendo attenzione a non rotolar giù.

Qualcuno azzarda una discesa con lo snowboard (che probabilmente dovrebbe chiamarsi sandboard), ma io resto ancora un po’ a godermi questa sensazione d’infinito.

Torniamo all’accampamento che il sole sta calando, le ombre della nostra lunga carovana si proiettano sulla sabbia, sembriamo un enorme millepiedi che ondeggia attraversa il nulla cosmico. L’entusiasmo del momento ci ammutolisce tutti, o forse, siamo tutti stoicamente immersi nel nostro dolore al culo. Diciamolo, dopo venti minuti di dromedario, una serie di squat con David Goggins ti sembreranno una passeggiata.

Dopo cena balliamo con i Tuaregh intorno ad un falò. I tamburi rimbombano nella notte. Il ritmo ti coinvolge, ti avvolge, ti percuote, non puoi restare fermo. Sembra un rito tribale, i corpi si muovono liberi nella penombra mentre il vento fa agitare la fiamma. Le stelle sono già alte, il cielo è nero come la pece e cessata la musica sembra che il mondo abbia smesso di respirare. Camminiamo lontano dall’accampamento per immergerci nel buio. Distesi su tappeti con lo sguardo rivolto al cielo combattiamo contro il sonno.

Pare che bastino davvero pochi istanti di gioia per capire di essere vivi. Quella notte, a pancia in sù sotto le stelle, nel silenzio del deserto del Sahara, mi sono sentita viva.

 

 

 

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