All’ombra del Partenone c’è una splendida struttura disegnata dall’architetto Tschumi. Come un elegante contenitore, questo museo custodisce al suo interno le bellezze rinvenute sopra l’Acropoli. Addirittura alcuni di questi ritrovamenti risalgono alla seconda metà del 1800 ed erano già parte di una collezione permanente di un più modesto museo inaugurato nel 1863. Prima di allora il Regno Unito aveva già trafugato e portato in patria diversi marmi appartenenti all’aera archeologica del Partenone, insieme ad altre ricchezze antiche da esporre nei propri musei londinesi (sorte che purtroppo è occorsa a diverse opere da ogni parte del mondo).

Adesso, grazie ai suoi 25.000 metri quadri di area espositiva, il museo offre la possibilità di affascinarsi difronte alle antiche sculture, alle sottili monete d’oro ed alle opere architettoniche, in un ambiente progettato con centinaia di vetrate e geometrie differenti. Le sale sono infatti talmente grandi e luminose, che non si può fare a meno che restare impressionati dalle loro linee pulite e le forme razionali che rendendo la stessa struttura protagonista dell’intera visita.

Acquistiamo il biglietto, ritiriamo l’audio guida e, con cinque passi, siamo davanti al controllo biglietti.

“Tickets?”

“Ussignur, dove l’ho messo?”

“Ticket madame.”

“Eh… ho capito…one moment.” Mi frugo nelle tasche del jeans, controllo in borsa, a fondo, rovistando come un’anziana al mercato in cerca della pera poco ammaccata, infilo le dita nei settanta taschini della stramaledetta borsa, ricontrollo le tasche dei jeans, prima quelle dietro e poi quelle davanti e poi di nuovo quelle dietro, per sicurezza.

“Ticket madame.”

“Porca pinazza! Ce l’ho, I don’t know where, un moment”

“Ti serve un moment Daniè? Ho il brufen se vuoi.” Suggerisce l’amica che non ha compreso la situazione.

“Ma no, non mi serve.”

“Serve a lui?” E guarda sorridendo l’uomo vestito in abito scuro con lo scanner in mano.

“No! Non trovo il biglietto.”

“Ma se lo abbiamo fatto due secondi fa?! Dove lo hai messo?”

“Se lo sapessi, glielo farei vedere che dici?”

“Vabbè mentre lo cerchi facci passare.”

E mentre tutti mostrano il loro biglietto guadagnando l’ingresso, io torno al bancone dalla signora rubiconda coi capelli a spazzola.

“Sorry I don’t know where is my ticket”

“Oh italiana.”

“Yes” sorrido un po’ sollevata un po’ imbarazzata. Dal suo tono direi che ‘italiana’ suona un po’ come: ‘sta povera deficiente è riuscita a perdere il biglietto in soli cinque passi’. E va bene, me lo merito.

“Try in your your wallet.” Suggerisce sorridendo.

Apro il portafoglio, così piccolo che ci possono entrare solo due pezzi da cinque euro e un bancomat.

“Nothing.”

“In your pocket?”

Mi rimesto le tasche solo per darle soddisfazione, prima davanti, poi dietro, poi di nuovo davanti per mostrare l’impegno messo nella ricerca.

“Nothing. And nothing in my bag.” Esclamo prima che mi faccia riaffrontare l’ennesima umiliazione.

“Ok. Ok.” La donna coi capelli alla Christopher Walken fa un cenno all’uomo vicino ai tornelli e finalmente riesco ad entrare.

Dopo quaranta minuti sono ancora qui. L’audio guida mi sta raccontando le opere della parete sinistra, quelle della parete destra e, ancora non ho ascoltato la descrizione delle opere al centro dell’enorme atrio.

‘Riuscirò mai a finire tutti e tre i piani?’ mi domando già stanca. Tolgo le cuffie e decido di guardare il museo a modo mio, soffermandomi solo su ciò che mi colpisce davvero. Un gufo, la testa di una donna incastrata nella roccia, una sfera di pietra completamente scolpita, volti con gli occhi cavi senza sorriso che mi fissano tristi. Quello che mi piace davvero sono i blocchi di cemento dalle diverse geometrie che s’incastrano e si sovrappongono nelle varie sale. Le ombre che proiettano i soffitti e gli angoli delle superfici sono incantevoli e, grazie alle immense finestre, l’atmosfera è calda ed accogliente persino in un’ambiente monocromatico.

“Daniè dove sei?” Leggo sul messaggio che mi è appena arrivato.

“Sulla terrazza.”

“Di già? Noi siamo ancora al primo piano, sala tre.”

‘Procaccia miseria’, penso buttando gli occhi al cielo.

Mi siedo sui divanetti in finta pelle e mi godo la vista del suggestivo promontorio, col Partenone che mi mostra il fianco accarezzato dal sole e mi domando: ‘Ma se avessero lasciato tutto dov’era, là su quella collina, non sarebbe stato meglio?’

 

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