Autore: George Orwell.

Un diario di viaggio pubblicato nel 1933. Un racconto di esperienze che, giorno dopo giorno, si fanno sempre più difficili, angosciose e deprimenti; non mancano momenti divertenti è vero, ma alcune situazioni risultano quasi essere al limite della fantasia, eppure non lo sono. Tra le pagine ci sono sudore e fame. Tanta fame. Non avere soldi crea un sacco di disagi, la dimensione in cui è costretto a vivere il vagabondo è faticosa, addirittura si rischia di non mangiare per giorni interi perdendo drasticamente le forze e la lucidità mentale; quando si trova finalmente un lavoretto, sottopagato ed estenuante, si passano più di diciotto ore in piedi a sgobbare e, a quel punto, non è la fame ma il sonno che viene a bussare alla porta.

Considerando che: ha vissuto e dormito in bettole, affittacamere, dormitori, su panchine, in cucine lerce; non si è lavato per giorni, ha sofferto il freddo e il caldo, ha impegnato tutti i suoi pochi averi, ha lavorato fino a non sentire più schiena e gambe, fumava i mozziconi trovati a terra ed elemosinava negli oratori una tazza di tè…direi che alla fine non se l’è cavata malissimo.

La narrazione è avvincente e talmente puntuale che sembra di vivere ogni minuto, ogni ora, ogni giorno proprio lì accanto a lui, seduti al capezzale del suo lercio letto infestato da pulci e con un’aria irrespirabile.

Gli ultimi capitoli rivelano l’anima del libro: Orwell, oltre a descrivere un’esperienza di vita in due delle città europee più in via di sviluppo, tracciandone quindi il tessuto sociale ed economico, gli usi e le abitudini, riesce a regalarci una delle più acute e sagge analisi sociali mai lette.

Una visione così meravigliosamente oggettiva e illuminante su quanto sia importante il denaro (già all’epoca), su come tutto si basi sulle apparenze e l’inganno. Considerazioni che vanno ben oltre un pensiero personale, queste sue pagine sono osservazioni di un acume fuori dall’ordinario e di una sensibilità d’animo e intellettuale sicuramente invidiabile.

 

Tratto dal libro:

“…I mendicanti non lavorano, si dice; ma poi, che cos’è il lavoro? Lo sterratore lavora brandendo il piccone, il contabile lavora sommando cifre; il mendicante lavora stando in piedi all’aperto col bello e col cattivo tempo e facendosi venire le vene varicose, bronchite cronica eccetera. É un mestiere come tutti gli altri; del tutto inutile, naturalmente, ma in fondo molti mestieri onorati sono del tutto inutili. E come tipo sociale il mendicante può essere paragonato, con suo vantaggio, a decine di altri. Lui è onesto in confronto a chi vende gran parte delle specialità farmaceutiche, di pensiero elevato in confronto al proprietario di un giornale della domenica, amabile in confronto a chi vende merce a rate: insomma, è un parassita, ma un parassita abbastanza innocuo…. “Perché i mendicanti sono disprezzati?”, dal momento che sono disprezzati universalmente. Io credo che dipenda semplicemente dal fatto che non riescono a guadagnare abbastanza per vivere decorosamente. In pratica a nessuno importa se un lavoro è utile o inutile, produttivo o parassitico; l’unica cosa richiesta è che sia redditizio. Il denaro è diventato il banco di prova del valore. In questa prova i mendicanti falliscono, e per questo sono disprezzati. Se si potessero guadagnare dieci sterline alla settimana con l’assiduo accattonaggio, immediatamente l’accattonaggio diventerebbe una professione rispettabile. Un mendicante considerato realisticamente, è semplicemente un uomo d’affari che, come altri uomini d’affari, si guadagna la vita come capita. Egli no ha perduto l’onore più di quanto l’abbiano perduto la maggior parte degli uomini moderni: ha solo commesso l’errore di scegliere un mestiere col quale è impossibile diventare ricco….”

 

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