Dove posso trovare delle montagne colorate?

Vinicunca in Perù.  Questa catena delle Ande sembra fatta di tessuto. La sedimentazione di svariati minerali con composizioni  differenti tra loro, ha permesso questo fenomeno di striature meraviglioso, se lo si guarda pare quasi che dalla cresta siano stati rovesciati barattoli di vernice che hanno rigato i fianchi delle montagne sino a valle.

Nel Parco geologico Nazionale del Danxia in Cina possiamo assistere allo stesso fenomeno naturale. Anche qui le pietre sembrano dipinte e la natura si trasforma in qualcosa di totalmente inaspettato e surreale come fosse lo schermo di un televisore in assenza di segnale.

Un’altro esempio è quello nel canyon di Paria in Arizona le cui anse creano movimenti morbidi e ondulati. La varietà di colori è più ristretta ma ci sono cosi tante tonalità che si succedono tra loro da far apparire le insenature come solcate dai colori.

Quello che voglio raccontare però è altro.

La terra che ho calpestato non è colorata ma di un bel marrone scuro solo che, sopra di essa, si appoggia una vegetazione così variopinta da rendere il paesaggio tra i più incredibili mai visti.

Sono nel Pistoiese vicino la località di Doganaccia. É da qui che parto per raggiungere il sentiero 66 del Cai.

“Porca puttana che tempo di merda!”

Infilo la testa in un berretto caldo e lo assicuro con il cappuccio dell’impermeabile. Dopo la prima salita le gocce di sudore mi scendono sui fianchi depositandosi sull’elastico del pantalone ormai zuppo, pesante e freddo.

Un uccello dal fischio acuto volteggia apparendo e scomparendo dietro le nubi e la nebbia bianca. Provo ad intercettarlo. Uno sguardo al terreno e uno sguardo al cielo, uno al terreno e uno al cielo. Non riesco mai ad alzare gli occhi quando si palesa, sembra lo faccia apposta, non capisco le sue dimensioni né le intenzioni ma inizio a preoccuparmi un po’.

Il problema sono sempre le storie raccontate a caso dagli altri, quelle che iniziano con ‘ho sentito che…’, ‘hanno detto che…’, ‘si dice in giro che…’, di solito scollego il cervello non appena sento un incipit simile ma, adesso, non posso fare a meno di pensare a quella brutta storia occorsa ad un chihuahua portato via da un gabbiano mentre passeggiava su di un litorale insieme ai suoi padroni. Diciamolo, sicuramente quello sulla mia testa non è un gabbiano, ma fanculo! perché rischiare?! Rimetto il guinzaglio al cane (venticinque chili di morbidezza) e lo stringo forte.

É così che, con questa bella idea del cazzo, mi ritrovo a trascinare non solo il mio peso ma anche il suo, su e giù per il sentiero in mezzo a questi campi desolati.

Sono alla duecentesima foto. Me ne frego se esaurirò la batteria del telefono e rimarrò da sola in questa parte del mondo sperduta e priva di forme di vita, devo scattare foto.

“Aspetta non tirare fammene fare un’altra. Aspetta un attimo ho detto!”

La collaborazione tra le due è un po’ complicata. Lei vuole annusare quando io voglio camminare e io voglio fotografare quando lei vuole correre.

Dopo meno di due ore giungiamo in cima e….

…”Aspetta! Ma che è sto stagno? Tutta sta fatica per sta pozza d’acqua?”

Lo dico ad alta voce come se ne avesse colpa qualcuno poi, per fortuna, le nuvole (evidentemente impietosite) capiscono il mio disappunto e si diradano separandosi a mo’ di sipario.

“Ah ecco, non sono ancora arrivata!”

Faccio gli ultimi duecento metri come se stessi passeggiando in Via Monte Napoleone. Mi guardo intorno sperando che qualcuno mi noti. “Sono arrivata in cima!” dico con tono spocchioso il braccio conserto e la mano che dondola piegata in avanti.

“Ehi tu mi vedi? Sì dico a te cespuglietto di foglie color rame. Non pensavi ce l’avessi fatta eh!”

Dopo il doveroso book fotografico composto da una cinquantina di scatti dei quali ovviamente solo due si salvano, mi volto e torno sui miei passi.

Un fitto grigiore è sceso di colpo e adesso è così basso che sembra di avere i piedi avvolti dalla nebbia di in un concerto rock anni Ottanta. É bello e spaventoso. Alcune nuvole leggere mi attraversano come fossero spiriti e mi provocano un brivido freddo che vibra sino alla punta dei capelli.

“Lo sapevo che sarebbe venuto a piovere dannazione!”

Sento dei colpi di fucile.

“Porcaccia miseria guarda se ora mi devo prendere pure una pallottola. Ma come cazzo fanno a sparare che non si vede un accidente!”  Tengo il cane così vicino che devo stare attenta a non inciamparci sopra. “Ci manca solo che me lo scambiano per un bottino di caccia.”

Punti di riferimento: zero.

Telefono: non prende.

“Ottimo. Sono un genio.”

Non mi faccio prendere dal panico, anche se andrei in bagno volentieri. Mentre cerco di capire come uscire da questo casino, riesco a finire un’intera busta di gommose alla liquirizia.

Il cane mi guarda. “Per te ho della carne secca se vuoi.”

Mastichiamo rumorosamente entrambe ed il nostro biascicare si mischia al fischio dell’uccello in incognito e allo sparo del cacciatore.

“Concerto diretto da…sto cazzo!..” Riesco a mantenere il senso dell’umorismo facendomi ridere da sola.

Due scivolate col sedere più tardi, scorgo una figura umana.

“Ohilà!!” Grido con voce stridula come farebbe una ragazza di campagna in un film anni Trenta. Rido. Alzo la mano a paletta per entrare meglio nella parte e la ondeggio delicata in aria.  “Ohilà signoreeee”

Macché niente, il vento è così forte che la mia voce non riesce a raggiungerlo. Lui è fermo davanti ad un auto sul sentiero che passa proprio sotto di me. Provo ad accelerare il passo mentre la pioggia fitta mi rende le cose sempre più complicate.

“Ohilàààà!” Continuo imperterrita.

Il cane non mi è d’aiuto, non emette un solo suono, forse perché non sa come abbaiassero negli anni Trenta.

Alla fine accade. L’uomo si gira. Mi vede. Lo vedo che mi vede. Fa un ok con la mano. “Lo sapevo che mi aveva visto”.  Saluto e sorrido. “É fatta!” mi dico speranzosa. Faccio passi sempre più lunghi rischiando di scivolare tra le basse radici delle piante. Lui apre lo sportello. Io mi fermo. Prendo fiato e respiro cercando di non inalare la pioggia. Lui sale in auto. Chiude lo sportello. Abbassa il finestrino. Saluta. Rialza il finestrino e… se ne va.

L’uccello misterioso fischia in maniera prolungata.

“E io che per tutto questo tempo mi sono preoccupata di te!”  dico guardando in alto.

In quel preciso momento ho capito tutto: per quanto la montagna possa apparire inospitale, non c’è niente al mondo che fa possa fare più paura dell’uomo.

 

 

 

non è proprio la giornata giusta

silenzio stupendo

mica incontrerò lupi

sempre dire dove sei

meraviglia

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