Non era ancora il periodo dei social, delle foto dritte o ritoccate, della messa a fuoco o del ‘dopo magari la posto’. Erano gli anni in cui si viveva in funzione della vita stessa e non di qualche like o follower. Insomma, era l’era in cui ogni cosa aveva un senso vero e non fasullo.

Prenotai questo ristorante ancor prima di aver definito gli orari di volo per il Canada. In effetti fu proprio la prima ed unica cosa che pagai quando ancora stavo cercando di capire come organizzare il viaggio, un bel rischio insomma perché avrei potuto stravolgere qualsiasi piano in qualsiasi momento eppure, alle 19 esatte del terzultimo giorno del viaggio, noi eravamo proprio dove dovevamo essere.

Ricordo perfettamente quel quartiere in periferia, totalmente deserto e silenzioso, le sue strade pulite e magnificamente asfaltate (un italiano ci fa caso a queste cose) ed i grattacieli grigio e acciaio tutt’intorno. Un ascensore del tutto anonimo ci porta in pochi secondi sino all’ultimo piano. Le porte si aprono con il classico tintinnio a due note che ti avvisa dell’arrivo al piano; vetrate enormi circondano la sala arredata con divanetti e tavoli alti con sgabelli in legno.

“Welcome! Have you made a reservation?”

“Yes!”

Mostro il foglio a4 sgualcito e sporco di caffè che mi porto in giro da quasi un mese.

Il bel ragazzo sorride e ci fa cenno di seguire una bella ragazza.

La bella ragazza sorride e ci fa cenno di seguire un’altra bella ragazza.

La bella ragazza sorride e ci fa cenno di sederci su degli sgabelli alti proprio di fianco la parete in vetro.

Un piccolo menù sul tavolino ci elenca i cocktail di benvenuto gentilmente offerti dalla casa.

Scelgo il cocktail champagne.

Non l’avessi mai fatto.

Una roba amara e zuccherosa (non saprei descriverla diversamente), ad ogni sorso mi vengono in mente le espressioni disgustate di  Miranda Priestley (alias Meryl Streep) ne Il  diavolo veste Prada, e mi sento più fottutamente snob di lei.

Dopo qualche minuto si palesa un bel ragazzo (a quanto pare li assumono tutti così) che ci permette di salire con un ascensore dedicato sino in cima. Ad accoglierci c’è una delle migliori viste mai viste. Ridondante? Avete ragione, diciamo allora: un panorama da capogiro.

Non è mia abitudine salire sulla vetta dei grattacieli figuriamoci su torri alte più di 550 metri! Da quassù  il mondo non è piccolo, è incredibilmente piccolo! Sembra quasi di vedere camera mia quando avevo otto anni ed ero così disordinata che lasciavo i pezzi del lego sparsi sul tappeto.

 

Il tavolo è perfetto. La vetrata è proprio accanto a noi, appoggio la fronte per guardar giù evitando i riflessi di luce. Il Lake Ontario è così esteso che ci si dimentica che sia un lago.

Il blocco del ristorante gira di trecentosessanta gradi, quando prenotai mi venne qualche piccolo dubbio che la cosa potesse in qualche modo influire sull’andamento della cena (o sulla digestione più che altro), ed invece il movimento è del tutto impercettibile e costante, una rotazione perfetta che ci permette di sovrastare Toronto da varie angolazioni.

Una cena assolutamente deliziosa che io e mio papà ci siamo gustati con l’esclusivo spettacolo di un tramonto indimenticabile. Il sole lentamente è calato creando lunghe ombre su tutta la città, che per pochi istanti si è divisa tra il chiaro e lo scuro creando dei giochi di luce e prospettive davvero accattivanti. L’acqua del lago sembrava argento fuso, tra cielo e terra si è creata una lunghissima pennellata arancione e poi, d’improvviso, il buio. La città ha acceso tutte le sue luci, e quei brillanti puntini sembravano decorare una tela nera. Sino all’ultimo morso del dolce, quel panorama, ci ha continuamente sorpresi.

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