Il tragitto percorso in treno da Londra a Cambridge è entusiasticamente poetico. Il silenzio del vagone, la velocità non troppo sostenuta e, fuori dal finestrino, piccoli centri abitati e campagne imbiancate da una soffice neve. Sui campi diventati come candide coperte, sprofondano le corte zampe delle piccole lepri dal manto scuro che cercano di correre veloci da una parte all’altra senza farsi notare. Altro che Tom Cruise, la loro è una vera mission impossible.
Ero già stata in questa cittadina, in estate, e mi era piaciuta parecchio ma devo dire che ricoperta di neve è ancora più graziosa. Sono qui per assistere ad uno spettacolo teatrale. Doverosa puntualizzazione: non sono mai stata fan di nessuno, nemmeno da ragazzina. Da me i giornalai non hanno ricevuto una lira perché non avevo la mania di appendere poster in camera. Non mi piacciono i concerti e, a pensarci bene, non ho mai avuto ‘idoli’.
Ricky Gervais è però l’eccezione che conferma la regola. Credo che sia una delle menti più brillanti in circolazione (per rubare la battuta ad Edoardo Leo in ‘Smetto quando voglio’) e poter assistere dal vivo ad un suo show è elettrizzante.
Cammino distrattamente nel centro storico per impegnare il pomeriggio e penso “cazzarola non ho visitato nemmeno un college.” Non che sia una priorità di vita, ma soggiornare a Cambridge e non buttar l’occhio dentro le storiche università è come andare dal macellaio e domandare se ha dei gambi di sedano.
La verità è che non sono vere e proprie ‘visite’, come quelle che puoi fare ad esempio ad Oxford, sono piuttosto biglietti d’accesso per le aree all’aperto e, come in questo caso, a qualche zona della struttura.
Opto per il King’s College, fondato nella seconda metà del 1400 da Henry VI. Dopo il suo assassinio nella torre di Londra nel 1471 furono gli Henry della dinastia Tudor a portare avanti i lavori.
L’ingresso costa dieci sterline.
Se c’è una cosa che faccio sempre all’estero è non far capire che sono italiana cercando di defilarmi come un cerbiatto al passaggio del cacciatore, non appena sento dei connazionali. (Intento che comunque fallisce miseramente appena apro bocca perché parlo un inglese che ricorda ‘l’inglese secondo Totti’, della serie: Not even to the dogs! Manco li cani!).
Stavolta però non ho potuto sfuggire al ‘richiamo del commento forzato’ un’attitudine viscerale che appartiene a tutti gli italiani sopra i sei anni. Le cose si sono più o meno svolte così:
“Cioè ti rendi conto che ci hanno fatto pagare 40 sterline per vedere un cazzo di piazzale?” Grida la ragazza alla madre.
“Io non volevo nemmeno entrare, che cazzo me ne frega del college inglese.” Replica il fratello.
“Ci sarà qualcosa da vedere immagino.” esclama la madre fingendo un lieve sorriso ansioso mentre il padre, in silenzio, sta sistemando il portafoglio nella tasca posteriore del pantalone.
Avete presente Oliver Hutton di ‘Holly e Benji’ quando cercava di recuperare il pallone facendo una scivolata a gamba tesa di circa 800 metri, ecco, più o meno mi sono intromessa nella conversazione familiare con la stessa grazia.
“Ragazzi c’è la cappella da vedere.”
pausa, un po’ troppo lunga anche per un tempo comico.
“quella lì”
indico la chiesa alle mie spalle
“appena entrate sono certa che direte”
alzo lo sguardo al cielo come estasiata e corruccio il volto a simular lo stupore
“minchia!!!”.
altra pausa, più breve stavolta
“fidatevi è una cosa straordinaria”.
E lo è davvero.
Un’unica navata lunga poco meno di 90 metri con le pareti ricoperte da gigantesche vetrate multicolore che rendono l’ambiente gioioso e regale allo stesso tempo. Il soffitto in pietra, alto più di venti metri, è scolpito con colonne ricurve che ricordano una ragnatela o, per essere più precisi, un ventaglio, questa infatti è la volta a ventaglio più grande del mondo!
A metà navata si trova l’organo sorretto da una struttura in legno completamente adorna di intarsi e, al di là di essa, un enorme coro, sempre il legno, che ospita studenti maschi e femmine che si esibiscono quasi ogni giorno durante la messa.
Mi sarebbe piaciuto assistere ad una loro performance, tradizioni che vengono portate avanti da centinaia di anni ti danno modo di sentirti parte di un qualcosa di importante e magico. Stavolta però devo accontentarmi del sorriso dell’attempato guardiano che si diverte nel vedermi fotografare le fiere in pietra che sormontano i grandi portoni laterali con dei balzi che ricordano vagamente l’aggraziatissimo ballerino interpretato da Aldo (di Aldo Giovanni e Giacomo) nello spettacolo ‘Tel chi el telùn’.
Trascorro una mezz’ora buona a passeggiare nel parco della proprietà antistante il fiume. I ponti in pietra sporchi di neve, le barche in legno che scivolano lente portando su di loro degli infreddoliti ospiti avvolti in coperte tartan, colonne di fumo chiaro che fuoriescono dai grandi camini in pietra e le finestre quadrate dai vetri sottili appannati lungo i bordi. É un paesaggio romantico ed elegante, proprio quello che la fantasia dipinge quando si pensa a luoghi come questo.
C’ è solo una cosa che non riesco a far scivolare dai pensieri, una cosa che mi chiederò per ore e che batterà in testa come un tasto di un pianoforte scordato: alla fine quella famiglia, avrà detto ‘minchia’ entrando in chiesa?





































































