“Noi siamo fieri della nostra merda e lo possiamo gridare al mondo intero…Viva la cacca del Perù!”
Mentre la barca sulla quale viaggiamo ondeggia su un mare agitato, la nostra guida manifesta al microfono tutto il suo orgoglio per il pregiato guano peruviano.
Dalla terra ferma le isole sono distanti circa 30 minuti di navigazione, le coste lisce e sabbiose lasciano lo spazio a scogliere frastagliate dai colori accesi; rosso, grigio, nero e verde, si alternano massi spigolosi di varie dimensioni su pareti bagnate dalle onde di questo mare color smeraldo. È uno spettacolo molto particolare. La barca procede a sbalzi, il vento soffia forte ed io me ne sto con la fronte appoggiata sul sedile davanti col collo perso all’interno di un giubbino di salvataggio rosso sbiadito parecchio ingombrante. Respiro piuttosto male, un po’ per il diaframma che in questa posizione è schiacciato sotto il peso della ciccia e compresso da dieci centimetri di schiuma espansa, e un po’ per il vento che s’insinua irruente nelle narici ogni qualvolta io provi ad alzare la testa.
“E alla vostra sinistra il famoso candelabro.”
Tiro fuori la testa dal mio pertugio con la velocità di una testuggine centenaria e volgo lo sguardo di lato. Sul pendio color miele c’è un enorme geoglifo a tre bracci. Sembra un fiore o una runa norrena, ma alcuni pensano sia legata alle linee di Nasca. A me non sembra lo stesso tipo di solco, comunque s’ipotizza che sia stata realizzata per fornire indicazioni per la navigazione e l’ipotesi presentata mi soddisfa. Centocinquanta metri di altezza per cinquanta metri di larghezza, immobile nonostante il vento ci soffi sopra con lo stesso impeto di una diciottenne sulla torta di compleanno.
“Penguin!”
“Ma dove non lo vedo?”
“Penguin!”
“Where?”
Nessuno risponde “Oh ragazzi ma dove sono i pinguini?”
“Boh non li vedo”
“Penguin!”
Mi giro verso la signora che continua a gridare “Signo’ ‘ndo cazzo li vede? Where Signo’?”
Un braccino esile punta verso la scogliera che sembra fatta di cubi incastrati male e lassù, piccolo piccolo in tutta la sua goffaggine, mi appare.
Alza le zampe veloci ed incerte saltando giù di roccia in roccia, nonostante sembrino acuminate continua a saltellare, scivola, casca col sedere per circa mezza parete, poi si rialza e riprende a zompettare. È davvero un animale buffissimo.
Poco distante un otaria si gratta ripiegata su ste stessa. Chissà come diamine ci sarà finita lassù in cima a quella roccia.
La barca ci mostra lunghe gallerie e lembi di spiaggia rossa, porte in mezzo al mare e isolette dalle modeste dimensioni dove solo i gabbiani possono approdare. Il cielo si riempie di volatili una volta raggiunta l’isola più estesa. Il guano bianco riveste l’intera terra emersa, in alcuni punti sembra anche parecchio spesso lo strato di escrementi del cormorano. Una struttura in ferro permette l’estrazione di questo prezioso fertilizzante che viene prelevato a distanza di anni e venduto a caro prezzo in tutto il mondo.
“La nostra cacca è preziosa! Guardate che bella! Vale più dell’oro!” Ci ricorda il nostro cicerone entusiasta e fiero. A me sembra una cosa davvero interessante, fotografo con lo zoom l’imbrattamento delle rocce più sporgenti mentre l’amica mia, in un sussulto di preoccupazione mi sussurra rassegnata: “La vedi tutta quella cacca? I piccioni, adesso che non ci sono, staranno facendo lo stesso sul mio terrazzino a Roma.” Sospira. “Altro che orgoglio, altro che bellezza, io glie sparerei”.












































