Palazzo Barolo a Torino ha ospitato l’edizione 2024 della mostra di fotogiornalismo più famosa al mondo.

Il World Press Photo è un concorso annuale al quale tutti i fotografi documentaristi e fotoreporter possono partecipare gratuitamente inviando scatti singoli, storie (da 4 a 10 scatti) o progetti fotografici (tra i 24 e i 30 scatti).

Non è la prima mostra che visito ma quest’anno, mi ha così tanto deluso che potrei quasi decidere di non visitarla in futuro.

Il fatto è questo: su 130 fotografie, più della metà trattavano i temi cari al bombardamento mediatico di questo periodo: la guerra dell’Ucraina, il cambiamento climatico e le manifestazioni dei cittadini.

Orrore, tristezza, morti, povertà, distruzione, miseria. Nonostante il palazzo sia di una bellezza incredibile, con soffitti affrescati, passeggiare lungo le sale passando in rassegna queste immagini stampate, è un vero supplizio.

Non c’è nulla di peggiore dell’arte politicizzata. Ricordo che in passato, insieme a foto di guerre e manifestazioni violente, trovavano spazio anche colori accesi, natura, animali, volti sorridenti… Adesso invece ci sono decine e decine di scatti ‘impostati’, studiati e (secondo me) recitati.

Non è un mistero che alcuni fotoreporter riproducano scene alle quali hanno assistito, ma che non sono riusciti ad immortalare. Gente in preghiera, abbracci sotto luci particolarmente favorevoli, cadaveri posizionati a dovere, volti rabbiosi fomentati prima dello scatto come durante una lezione di teatro. Però credo si sia passato il limite.

Il mondo non è solo ciò che ci mostrano in tv. I problemi e le guerre e le ingiustizie esistono ovunque, sempre, quotidianamente eppure, si segue sempre il filone dei “favoriti da politica e giornali” per aumentare la sensibilità sociale solo su alcuni fronti, oscurando del tutto, quanto succeda in altre parti del mondo e, sopratutto, quanto ancora di bello esista ancora là fuori.

Questo continuo sbattere in faccia immagini di dolore inizia quasi ad innervosirmi. Mi ritorna in mente la questione aperta da che esiste la fotografia (domanda che mai si sbroglierà) : è giusto fotografare una scena tanto intima come il pianto di un parente alla vista del defunto? É giusto immortalare il volto di un bambino appena saltato su una mina?

L’angolazione di una fotografia può dare messaggi diversi e veicolare quello dell’autore dello scatto. E questo concetto orami è assodato. E allora mi domando: possibile che non ci sia nessuno che voglia mostrare fotografie di speranza, di gioia e di naturale bellezza? Come se l’uomo dovesse perennemente soffrire e pensare alla sofferenza altrui. Mostrare scene cruente fa più audience? Perché bisogna mostrare a più di quattro milioni di visitatori il dolore di un padre o una madre che hanno appena perso il loro figlio? Non è altrettanto d’effetto o “vendibile” la foto di un genitore entusiasta di stringere al petto un figlio sano? Non provoca alcun movimento emotivo nel cuore della gente la felicità?

Siamo così assuefatti al brutto e alle crudeltà, che proviamo una specie di soddisfazione a vedere la sofferenza.

Io trovo la scelta della giuria di questo contest quantomai discutibile. In primo luogo se dobbiamo elencare gli scontri avvenuti durante l’anno, allora mostriamoli tutti. Senza vittime di serie A e vittime di serie B. Se dobbiamo far vedere il degrado di una città, mostriamo il degrado che inghiotte le diverse realtà urbane e rurali dell’intero Pianeta. Basta con questa selezione dei vinti e delle vittime, con questa ingiustizia settoriale.

Mi sono sentita quasi in imbarazzo, come aver speso soldi per attraversare la corsia di un ospedale da campo. Se dobbiamo per forza appendere alle pareti solo scatti tristi di persone che soffrono,  allora c’è un problema di fondo nelle nostre menti e nella nostra società.

E per quelli che pensano che questo tipo di fotografie siano di ‘denuncia’ rispondo: non credo. Si denuncia qualcosa per trovare un rimedio, una soluzione. In questo caso si mostra, per il solo fine di mostrare e per creare quell’impatto visivo che non serve a scuotere le menti, ma ad inebetirle.

 

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