Autore: Robyn Davidson
Preparare un viaggio non è affatto semplice, sopratutto se come mezzo di trasporto scegli di utilizzare dei cammelli, però, dopo aver letto più di settanta pagine, ho iniziato a chiedermi: ma partirà prima o poi?
E alla fine si mette in cammino, dopo averci raccontato praticamente tutto di una remota cittadina del Nord-Est australiano nella quale, come si suol dire, “è meglio aver paura che buscarne”. Prima di partire aveva già all’attivo un paio di decessi di poveri cammelli (o forse ne son morti tre, non ricordo, la narrazione si fa un po’ confusa quando leggo di poveri animali uccisi per un capriccio); aveva anche tagliato le palle (con un coltellaccio e senza anestesia) ad un povero maschio un po’ esuberante e aveva deciso di sellare per la lunga traversata anche un cammello incinta.
Non è un viaggio (chiariamolo subito!) e per quanto possa essere un libro amato dai più, vincitore di un premio letterario, osannato dalla critica, corteggiato da National Geographic e adattato per il grande schermo, a me è piaciuto poco.
Robyn si getta a capofitto in questa impresa che la doveva vedere affrontare da sola la parte dell’isola meno esplorata, la terra degli aborigeni, quella delle pianure desertiche e degli altopiani temibili. La realtà è che: un certo Ricky, fotografo di National Geographic, l’accompagna in questa avventura; si fermeranno talvolta in qualche fattoria; riceveranno aiuti di vario tipo per le difficoltà occorse durante la traversata; farà ammalare i cammelli e ucciderà il suo fedele cane. Roba che non avevo così pianto dai tempi dello sparo di Thoureau. Insomma, a mio umilissimo avviso, non è propriamente definibile un ‘viaggio in solitaria’.
Le descrizioni del paesaggio sono quasi assenti, ricorre spesso questo suo sentimento di ricercata solitudine e di coraggio riscoperto che, durante qualche passaggio quasi al termine del racconto, me la fa quasi diventare antipatica.
“Ero diventata proprietà del pubblico – mi ero trasformata in una specie di simbolo…avevo fatto qualcosa di coraggioso al di là delle possibilità che si offrivano alla gente comune…”
Il coraggio glielo concedo, ci vuole fegato a stare nella terra dei serpenti, della sabbia rovente, tra gente ostile, stringendo tra le mani una fune alla quale sono attaccati degli animali poco affabili e bisognosi di attenzioni davvero particolari. Perdersi significherebbe rischiare la morte, e persino dormire sotto una sottile tenda lo è. Resta il fatto che, per quanto mi sforzi di vederla come una donna che ha sfidato il mondo e l’ignoto, mi è sembrata solo una che doveva inseguire una storia da scrivere, (che tra l’altro le avrebbe fruttato denaro).
La cosa non rende l’impresa più semplice certo, ma sicuramente, mi appare meno poetica.
Se ti ho incuriosito, o se vuoi scoprire altri testi di letteratura di viaggio: https://amzn.to/3SbzqEZ