Sulla sponda bresciana del lago di Garda si trova uno smisurato complesso formato da ville, sentieri che si nascondono in una rigogliosa vegetazione, giardini abbelliti da rose, corsi d’acqua, fontane, laghetti, un anfiteatro, alcune statue, dei percorsi museali e…come se già questo non fosse sufficiente….una nave.

Basta un solo sguardo alla mappa che consegnano in biglietteria per sentirsi stanchi.

Nel 1921 Gabriele D’annunzio affitta la villa (visitabile con biglietto aggiuntivo e vera attrazione di tutto sto po’ po’ di roba) per una cifra che appare davvero ridicola: 600 lire. La chiamano ‘la colonica’ per quel sapore rustico e la posizione in collina. Gabriele (mica scemo) se ne innamora e, dopo appena un anno, la acquista.

Immagino che la mattina uscisse in giardino a prendere il caffè gettando lo sguardo nel lago; lo sento imprecare contro i muratori che salgono e scendono dai pendii scoscesi durante la costruzione delle diverse strutture e me lo immagino, impettito e fiero padrone di casa mentre accoglie gli ospiti più illustri.

Il poeta nel corso degli anni apporterà decine di modifiche e ristrutturazioni all’intera tenuta. La villa si amplia, viene costruita la terrazza Schifamondo ed allestito il percorso di fontane al centro della proprietà.

Lo splendore di questa residenza è conosciuto da molti e tra questi ambienti si discorre di arte, di politica e d’amore.

Poi un giorno arriva lei, Puglia.

Quel giorno lì, io, me lo immagino esattamente così…

 

“Sor Gabbriè!” (nella mia testa D’Annunzio aveva la servitù di origine romana).

“Sor Gabbriè!” Insiste a gran voce da dietro la porta della camera.

“Sor Gabbriééé!” bercia sempre più forte bussando ripetutamente con le nocche nodose più forti di un martello.

“Franco va via!” Una voce roca rompe il silenzio da dentro la stanza.

“Sor Gabbriè è urgente!”

“Ho detto va via!”

“No Sor Gabbriè me permetta d’ensiste.”

Rumori di bicchieri che cascano su tappeti, poltrone spostate, interruttori che si accendono e tende pesanti che si spostano strisciano sul pavimento. Gabriele esce dalla stanza con una vestaglia di velluto bordeaux legata in vita da una corda con due nappe nere che penzolano dal nodo.

“Si può sapere che diamine vuoi Franco! Ti ho detto mille volte di non disturbarmi mentre discorro di poesia con le signorine mie ospiti!”

“‘O so, o’ so. Ma c’è na cosa importante, tiè.” Il domestico gli sbatte sul petto un foglio di piccole dimensioni color panna.

“Mi hai interrotto per darmi una lettera?!” D’Annunzio stringe il foglio tra le mani prima che scivoli giù.

“No non è ‘na lettera! Guardi ben Sor Gabbriè”

“Ma che è?!”

“È la bolla del corriere qua fuori, dice che ce vole a’ firma sua altrimenti non se schioda dal cancello.”

“Il corriere?”

“Sì”

“E che hanno consegnato?”

“‘Na nave.”

“Cosa?”

“‘Na nave ha capito bene, e pure bella grossa, anzi…se me fa’ ‘a cortesia Sor Gabbriè de venì a vede’ che stanno a combinà li al cancello perchè so due ore che fanno manovra per metterla dentro e me stanno a sgarrupà tutto er muretto de’ cinta. Poi finisce che scappano li cani e me rompe i cojoni per ripiglialli.”

“Franco! Insomma! Che sono queste volgarità!”

“A Sor Gabbriè l’artra vorta m’ha fatto insegui er cane pe’ tutto il lungo lago! Io c’ho na certa età! Mica me posso mette a fa’ ‘e maratone! Perchè non se compra na tartaruga. Ecco, se pigli ‘na bella tartaruga che nun corre e nun rompe li cojoni.”

“Allora Franco! La smetta! Non sia così scurrile!” Dopo averlo nuovamente rimproverato D’Annunzio infila il foglio di carta nella tasca sinistra della vestaglia e fa per allontanarsi.

“‘Ndo va Sor Gabbriè?!”

“Torno dalle mie ospiti.”

“E la nave?”

“Dica al corriere di lasciarla all’ingresso, nel pomeriggio decidiamo dove sistemarla.”

 

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