Avrò visto le foto di quest’isola tidale almeno millesettecentonovantacinque volte, foto più foto meno, e ad ogni scatto commentavo con un sospirato “no vabbè io lì ci devo andare!”

Eccomi qui, al di fuori del perimetro con accesso ai soli autorizzati, davanti ad una sbarra abbassata, in stato confusionale ed incerta sul da farsi, le opzioni sono: inserire un codice numerico, inserire un codice alfanumerico, rispondere alla voce registrata parlando vicino al microfono, interpellare tramite il bottone rosso un addetto alla sbarra, chiedere l’aiuto di un passante, saltellare su un piede, offrire in sacrificio un amico, fare una giravolta, farla un’altra volta, invocare la dea Granù che tutte le sbarre tira sù o, come ultima opzione, sfondare. Scendo e oltrepasso la sbarra a piedi per cercare informazioni ma qualcuno con un grido perentorio mi richiama da lontano, spaventata torno indietro e la solita voce mi urla ancora allo stesso modo, mi sento simpaticamente divertita come Troisi in dogana col carro pieno di caciotte e la tasca gonfia di fiorini.

Si può raggiungere Mont Saint-Michel a piedi o con la navetta gratuita ed essendo quasi l’ora del tramonto, la seconda opzione sembra la più appropriata.

Finalmente ho capito il trucco dei clown che escono a decine da una cinquecento, è semplice: basta farsi comprimere gli organi, la cassa toracica, gettare nella mischia gli arti cercando di incastrarli in qualche pertugio ancora libero, stringere i denti e bloccare il respiro. Un gioco da ragazzi.

Scendo dall’autobus cercando di ricompormi come fossi marchio Lego e mi trovo al cospetto di quest’isola che da vicino è ancora più incredibile. C’è la bassa marea e, facendo attenzione alle sabbie mobili, la si può ‘circumnavigare’ ammirandola così da ogni angolazione. L’abbazia ha un fascino antico e misterioso, il sole si sta avvicinando al suolo illuminando di taglio le case in pietra e le alte mura di protezione. Il garrito dei gabbiani infastidisce non più del kilo di fango attaccato alle mie scarpe che mi sto trascinando con una certa disinvoltura.

Dopo qualche passo dall’ingresso nelle mura, vengo rapita da un delizioso profumo di omelette. Da La Mère Poulard le cucinano sul fuoco del camino e in pentole di rame, proprio come si faceva una volta ma non ci fate la bocca, se non avete prenotato almeno un ventennio prima non c’è possibilità di assaggiarla. In realtà reperire cibo non è così scontato da queste parti; per chi come me ha quel brutto vizio di rifocillarsi all’ora di cena, imparerà presto a sue spese che tutto il Nord della Francia è terreno accidentato. I locali chiudono prestissimo (qui addirittura dopo le 19 non ti accetta più nessuno) e aprono tardissimo. A metà della salita ci sono dei distributori automatici con patatine e bibite…rifiuto l’offerta e vado avanti più agguerrita di Messner.

Corro su per i vicoli cercando di arrivare alla vetta prima che faccia buio, neanche ai giochi senza frontiere del 1989 erano così veloci. Scanso i turisti più lenti e salto i trolley abbandonati all’ingresso degli alberghi dalle coppiette innamorate, scatto foto a raffica senza dar molto peso all’inquadratura e respiro a bocca aperta cercando di mandar giù aria e ossigeno (almeno quelli!). I gabbiani stridono così forte che non capisco se stiano tifando per me o contro di me. Minchia che frastuono.

Dall’alto lo scenario è suggestivo: una pianura dall’aria paludosa fa percepire questo promontorio roccioso ancora più isolato di quanto non lo sia nella realtà. Chissà quante persone si sono ritrovate con l’acqua alle caviglie prima di rendersene conto. Chissà se qualche abitante facendo tardi la sera si è ritrovato fuori casa. Chissà se quando la marea si alza porta con sé anche i pesci.

Svegliarsi molto presto è la scelta migliore. Col buio e con un silenzio surreale camminare sul pontile come un coraggioso esploratore è un’esperienza che consiglio caldamente. Ad ogni passo il cielo si schiarisce leggermente rendendo sempre più nitida la sagoma di questo capolavoro urbano e naturale.

Entro tra i primi dieci all’interno dell’abbazia e riesco a distanziarli dopo le prime sale. Ad un certo punto c’è così tanta calma che sento l’eco dei miei passi perdersi nelle enormi sale ricche di colonne. Non fossi vestita come una che porta fuori il cane la domenica mattina (e che poi ritorna a letto), potrei far finta di essere una duchessa in visita al vescovo, muovo le mani e roteo i polsi facendo finta di ondeggiare una gonna lunga, alzo il mento e mi inchino alle colonne come se fossero Reali.

Ho la fantasia un po’ impertinente lo so, ma tutta questa follia dev’esser contagiosa perché non posso far a meno di sorridere, ondeggiare i fianchi ed avanzare. Questo posto è magico, è incantato e suppongo di aver ereditato lo spirito errante di questo mare che la notte si fa vedere e la mattina…scompare.

 

 

 

 

 

 

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